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Gigi Cagni e quell’occasione persa

Quando Massimo Moratti voleva portare Gigi Cagni a Milano

L’undici giugno del 1995 finiva il campionato di Serie B e in cima alla classifica con 71 punti c’era il Piacenza; una squadra tosta, plasmata sui piedi e soprattutto sulle gambe di un manipolo di ragazzotti, habitué della provincia. C’era Massimo Taibi, in porta; un libero à l’ancienne come Settimio Lucci a guidare la difesa, un passo indietro alla linea a tre formata da Cleto Polonia, Stefano Rossini e Massimo Brioschi. A centrocampo la cerniera di polmoni composta dai dinamici Francesco Turrini, Giorgio Papais e Daniele Moretti.  Là davanti, un giovane della città che si chiamava Filippo Inzaghi e un attaccante di categoria come Totò De Vitis cercavano di trasformare in gol le pensate di Giampiero Piovani.

Erano tutti italiani e rispondevano agli ordini di un giovane mister bresciano, all’anagrafe Luigi Cagni per tutti semplicemente Gigi. Un allenatore che era arrivato a Piacenza nell’estate del 1990, quella italiana per eccellenza, ed era riuscito, a dispetto della sua poca esperienza, a regalare ai piacentini gioie più grandi dei gol di Schillaci. Dalla Serie C alla Serie A, in un paese che cambiava drasticamente faccia, in un mondo che mutava le sue frontiere. Era durata un solo anno la prima Serie A del Piacenza, così fu necessario il prologo della stagione 1994-1995 per continuare a tener vivo l’anacronistico sogno autarchico piacentino. In quel giugno, forse in maniera consapevole, Cagni era diventato ancora una volta il custode di un’utopia nazionale che andava controcorrente rispetto ai tempi. Il suo Piacenza funzionava bene con le sue radici locali, anche senza stranieri dai cognomi esotici e dal curriculum lungo due pagine. Questione di punti di vista, questioni di portafoglio soprattutto.

Eppure quello che sembrava un patto inscindibile fu sul punto di sciogliersi un anno prima quando il nome di Gigi Cagni iniziava a bucare la cortina di Piacenza. Il giovane tecnico dallo spirito provinciale piaceva anche ai piani alti, a qualcuno in Serie A che storicamente sull’internazionalità aveva basato la sua storia, a partire dal nome. Sì perché, nel 1994, l’Inter si fece avanti in maniera concreta per portare l’autarchico Cagni all’ombra della Madonnina e cercare di rilanciare un progetto tecnico impantanato in un valzer di allenatori e deludenti stelle straniere, tali solo altrove. Fu il grande Sandro Mazzola il ponte tra Cagni e la società di via Durini, fu lui che disse al tecnico bresciano che Moratti lo voleva all’Inter e che aveva il desiderio di conoscerlo di persona . L’incontro ci fu in quello che era stato lo studio di Angelo Moratti: fu una chiacchierata, un colloquio. Fate voi.

I due parlarono di mercato, Moratti disse all’”autarchico” Cagni che se fosse venuto all’Inter gli avrebbe messo a disposizione una batteria di sei attaccanti di grande spessore. Uscirono diversi nomi tra cui quello del francese Eric Cantona. Per Cagni, abituato all’austerità nazionale piacentina, era anche troppi e, in un eccesso di umiltà, si sentì in dovere di farlo presente anche al patron interista. La chiacchierata tuttavia era andata bene e la conferma arrivò poco dopo da Mazzola. La firma sarebbe dovuta avvenire nel giro di una settimana. Non arrivò mai.

Moratti non poteva affidare la sua Inter a un uomo venuto dalla provincia, da un’enclave conservatrice che male si accompagnava allo spirito del tempo. L’Inter era un sistema aperto, un porto di mare; Piacenza un fortino chiuso per esigenza di sopravvivenza. Era il pensiero inconscio nella mente di Moratti che lo spinse a scegliere – sbagliando ancora una volta – Ottavio Bianchi che aveva vinto a Napoli e in Europa ed era uomo di mondo.

I fatti sul campo scrissero il resto della storia: l’Inter Bianchi disputò l’ennesima stagione deludente, sesta in campionato e fuori subito in Coppa Uefa per mano dell’Aston Villa. Cagni sotto il cielo di Piacenza si riprese la A e la possibilità di ritrovare Moratti da avversario. I due si incrociarono poco dopo che il presidente neroazzurro aveva dato il benservito proprio a Bianchi. Questa volta fu Moratti a dar sfoggio di umiltà ammettendo con Cagni che si era sbagliato: l’anno prima avrebbe dovuto scommettere su di lui.

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