Rubens Pasino, storia di un trequartista nato centravanti
Rubens Pasino è uno di quei nomi che chi è pratico di Serie C non scorda. Quando portava il suo fisico minuto su e giù per l’Italia, in quella categoria che più di ogni altra era un inno alla fisicità, dava sempre l’impressione di essere lontano da quel mondo. Il suo modo di trattare la palla era troppo fuori contesto per passare inosservato e forse per questo Rubens ha lasciato quasi ovunque un buon ricordo. Da Reggio Calabria a Crotone fino a Modena. Passi importanti che hanno determinato la sua carriera e che abbiamo voluto ripercorre insieme in questa intervista.
Rivedendo la tua carriera, salta agli occhi la lunga lista di squadre con cui hai giocato ma in un’intervista di qualche tempo fa hai detto che sei diventato un giocatore vero con la Reggina. Come mai?
Arrivai a Reggio Calabria a 23 anni e lì iniziai a maturare perché fino a quel momento ero un giocatore che giocava due o tre partite buone e due o tre meno buone. A Reggio, inoltre, ebbi la fortuna di giocare davanti a un grande pubblico e di rimanervi per diversi anni. Imparai a prendermi delle responsabilità. Vinsi dei campionati e legai con la tifoseria.
Negli anni di Reggio formavi una coppia formidabile con Alfredo Aglietti. Lui più fisico, tu guizzante e pronto ad andare negli spazi.
Eravamo una coppia molto assortita ed è bello vedere come ancora oggi, anche sui social, molti tifosi della Reggina ci ricordano. Alfredo in due anni ha fatto quasi 40 gol; io meno, ma eravamo veramente complementari. Ci intendevamo in campo: lui ha fatto segnare gol a me e io a lui.
Cosa strana però in quel periodo tu indossavi la 9…
Quando arrivai a Reggio Calabria Alfredo, per scaramanzia, voleva la 11 quindi bisognava scegliere un altro numero e l’altro disponibile in attacco era il 9. All’epoca si giocava con numeri dall’1 all’11 e quindi, essendo io il secondo attaccante, dovetti scegliere la 9. Poi quando andammo in B, con i numeri fissi, la mantenni anche io per scaramanzia.
Rivedendo ora i filmati dell’epoca nel tuo modo di stare in campo ricordavi un po’ Montella: attaccante dal baricentro basso che giocava con il 9. Qual era il tuo modello?
In quel periodo il giocatore che mi piaceva tanto era Butragueño, un attaccante piccolo molto rapido ma letale in campo. Mi ispiravo a lui. In realtà rispetto ad attaccanti come Montella io agivo più lontano dall’area.
Da seconda punta poi, via via negli anni, sei arretrato di qualche metro arrivando a essere un trequartista, un numero 10 classico. Chi è stato l’artefice di questo cambiamento?
All’inizio di carriera, nella Primavera della Juve, giocavo centravanti. Fu Cuccureddu a Crotone a portarmi nel ruolo a me più congeniale: il trequartista. Così a 28 anni inoltrati inizia a giocare nel mio ruolo, disputando i miei migliori campionati.
Infatti, dopo 5 anni a Reggio Calabria, una promozione e tre stagioni in B, nel gennaio del 1999 scegli di scendere di nuovo in C con il Crotone. Come mai?
Tutti mi avevano parlato di quella società che aveva bruciato le tappe e l’anno precedente era stata promossa dalla C2. Dall’altra parte, dentro di me, un po’ mi dispiaceva scendere di categoria. Lì per lì andare via da Reggio non fu facile perché stavo bene fisicamente e con la piazza. Poi invece nella seconda stagione di Crotone, con l’arrivo di Cuccureddu, tutto è cambiato, anche la mia carriera. Vincemmo un campionato storico con gente come Deflorio che segnò 28 gol. Quella squadra, dopo aver raggiunto la B, con pochi innesti avrebbe potuto fare il doppio salto e arrivare in A come accadde al Modena.
Tra l’altro con i Pitagorici ti sei rilanciato alla grande andando in doppia cifra e guadagnandoti la chiamata, appunto, del Modena, altra tappa chiave della tua carriera.
Sì, è vero e avevo ancora un anno di contratto con il Crotone. Sarei potuto rimanere ancora però per me Modena era un città in cui dovevo arrivare. Forse era scritta nel destino, da quando mio padre scelse di darmi il nome di un giocatore che giocava nel Modena: Rubens Merighi (centrocampista argentino tra i protagonisti nel Modena a metà anni Sessanta n.d.r.). Tuttavia in quegli anni la società era ambiziosa, così decisi di rimanere in C1 anche perché mi facevano tre anni di contratto e mi davano qualcosa in più come ingaggio.
In Emilia hai vissuto la cavalcata dalla C alla A e l’ebbrezza del gol in Massima Serie, ironia della sorte contro la Reggina al Granillo.
Della serie A mi ricordo tutto, ogni momento di quei sei mesi che trascorsi prima di passare al Napoli. Mi ricordo ancora l’emozione dell’esordio, anche se perdemmo 3 a 1, e la notte prima passata dormendo quasi niente. Mi ricordo la vittoria di Roma (i “Canarini” batterono la Roma n.d.r.), vincemmo 2-1 e io entrai nel secondo tempo. E poi ovviamente il gol a Reggio Calabria che ci diede tre punti importantissimi: dopo quella vittoria eravamo lanciatissimi, forse eravamo sesti o settimi in classifica. Per il gol in sé ho sempre pensato c’entrasse il Karma (ride), visto che non c’eravamo lasciati bene con la dirigenza reggina. Quando segnai provai emozioni contrastanti: da un lato, razionalmente, pensavo a non esultare per rispetto dei tifosi di una piazza che mi ha sempre voluto bene; dall’altra parte ero contento perché fare un gol in Serie A era un sogno che inseguivo fin da bambino.
Ma immagino che della A tu abbia anche ricordi bizzarri o divertenti che magari noi che vediamo il calcio da spettatori non cogliamo.
Ti racconto questa. Andiamo a giocare a San Siro contro il Milan, siamo nel sottopassaggio pronti a scendere in campo e a un certo punto Mayer (compagno di squadra al Modena n.d.r.) tocca un braccio a Rui Costa, lui è concentrato e non se ne accorge neanche. Mauro (Mayer n.d.r) lo ritocca e Rui Costa si gira verso di lui e lo guarda come a dire “Che cazzo fai?”. Allora mentre Rui Costa lo guarda male, Mauro gli fa: “Volevo toccarti, volevo vedere se eri vero”.
Poi hai giocato anche a Napoli, una stagione e mezza, dal gennaio 2003 a giugno 2004. La prima parte di quell’esperienza fu discreta, la seconda invece fu la stagione del fallimento societario. Cosa hai vissuto in quell’avventura partenopea?
Fu sicuramente il peggior Napoli della storia. Qualcuno può dire che ci fu anche quello della C però quello era ripartito con un entusiasmo diverso. Fu un’annata (la stagione 2003-2004 n.d.r.) finita con il fallimento, dopo un campionato al di sotto delle aspettative, iniziato con i fatti di Avellino che ci costrinsero a giocare 5 partite in campo neutro. Nonostante ciò ricordo partite giocate di fronte a un pubblico straordinario. Quando arrivai (nel gennaio del 2003 n.d.r.) eravamo penultimi poi abbiamo fatto un buon girone di ritorno dove vincemmo tante partite in casa e fu comunque bello. Il pubblico era entusiasta.
E invece quando le cose precipitarono nella seconda stagione?
Giocare in un San Paolo semivuoto che ti fischia non è sicuramente una bella esperienza. Non è facile per nessuno. Poi quell’anno ci mettemmo del nostro anche noi, anche se le beghe societarie influirono tantissimo. Quando non prendi praticamente mai gli stipendi, ti pagano solo settembre e ottobre, poi fino a giugno niente, non sei nelle migliori condizioni per scendere in campo.
Hai avuto una lunga carriera, praticamente passata tutta in provincia, ma a vent’anni eri nella Juventus di Trapattoni, cosa ricordi di quell’esperienza?
Fu esperienza splendida, Trapattoni tra l’altro era abbastanza soddisfatto di me tanto che mi faceva giocare spezzoni di partite durante i test con la prima squadra. Mi capitò anche di segnare. Poi quando ti allenavi con la prima squadra imparavi molto: all’epoca non era come adesso che vengono sempre chiamati 4/5 primavera, era molto più difficile esser convocati. Ti chiamavano solo quando la prima squadra era davvero in emergenza. Comunque vedere allenarsi Baggio e altri campioni, o comunque anche solo sentirli parlare in pullman, era un insegnamento.
A proposito, legato al pullman della Juventus c’è un episodio divertente, ce lo racconti?
Eravamo andati a giocare un’amichevole ad Ancona, al ritorno atterrammo a Torino, poi dall’aeroporto Caselle allo stadio eravamo in pullman e io ero seduto dietro con Peruzzi. Lui durante il viaggio si mangiò una torta friabile – ce ne avevano regalate una a testa – quasi da solo: a momenti si strozzava.
Pensi di aver raccolto quel che meritavi o forse avresti potuto arrivare più in alto nella tua carriera?
Avessi scoperto prima il mio ruolo di trequartista forse avrei giocato qualche stagione in più in A e sicuramente in B.
E adesso Pasino cosa fa? Quali progetti sta seguendo?
Al momento non ho progetti nel mondo del calcio. Da un paio di anni d’estate mi dedico a uno sport che mi fa divertire molto anche se non è ancora conosciutissimo. Il foot volley che vi invito a scoprire.